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In diverse aree del globo, negli ultimi anni si sono susseguiti forti terremoti, con magnitudo prossime a 8.0, che hanno provocato ingenti perdite economiche e sociali, spesso aggravate dall’elevata vulnerabilità delle costruzioni. Nonostante questi eventi devastanti abbiano lasciato un’impronta profonda e, per un breve periodo, catturato l’attenzione dei media, la loro risonanza emotiva tende a svanire in fretta. Da disastri come i terremoti in Turchia - Siria, nella penisola di Noto in Giappone e in Myanmar (ex Birmania) nel Sud-Est asiatico, emerge con urgenza la necessità di riflettere sulla pericolosità sismica, sulla possibilità di prevederne gli effetti e sulle strategie di prevenzione da adottare, non solo nei territori colpiti, ma anche in Italia.
Il 6 febbraio 2023 la Turchia e la Siria settentrionale hanno subito due terremoti molto forti su due diversi segmenti del sistema di faglie dell' est Anatolica: il primo alle ore 01:17 (UTC) di magnitudo 7.8 a Pazarcik - Gaziantep ha prodotto una rottura superficiale di 320 km, il secondo 10:24 (UTC) a Kahramanmaras di magnitudo 7.5 sulla faglia Çardak–Sürgü, ha prodotto una rottura di circa 150 km. L'epicentro della scossa più forte è stato localizzato a circa 30 chilometri a nord-ovest di Gaziantep, la sesta città più grande della Turchia con i suoi 1,9 milioni di abitanti. L’intensità massima ha raggiunto XI–XII della MMI (Figura 1) e le numerose stazioni accelerometriche hanno rilevato mediamente valori di PGA (Peak Ground Acceleration) di 0,5–0,7 g, toccando valori estremi di PGA pari a 1,62 g a Fevzipaşa (ca. 50 km dall’epicentro). Il bilancio è stato di oltre 53.000 vittime in Turchia e 6.000 in Siria, con danni ingentissimi alle infrastrutture. Le indagini successive hanno evidenziato che l’uso di materiali scadenti, errori progettuali e costruttivi, la presenza di condoni edilizi che hanno favorito abusi unitamente all’eccezionalità dell’evento sismico sono state le cause principali dei crolli.
Il 1 gennaio 2024, il sisma verificatosi nella penisola di Noto, in Giappone di Mw 7.6 (Figura 2), ha messo a dura prova anche le avanzate norme antisismiche locali, causando 600 vittime e danneggiando 193.529 strutture in nove prefetture. L’agenzia del Giappone riporta un picco di accelerazione al suolo di 2.73 g è stato misurato a Shika (ca. 60 km dall’epicentro), il cui valore si avvicina a quello misurato nel terremoto del Tōhoku del 2011 che aveva raggiunto i 2.99 g, risultando il più potente mai registrato nella storia del Giappone moderno.
Più recentemente, il 28 marzo 2025 il Myanmar (ex Birmania) è stato devastato da un terremoto di magnitudo compresa tra 7.7 e 7.9, tra i più forti di una serie di eventi catastrofici che, per l’estesa devastazione, hanno recentemente segnato la memoria collettiva. Dall’ipocentro, vicino a Mandalay, l’onda di rottura si è propagata su una faglia lunga circa 530 km, generando spostamenti di 5–6 m nella zona dell’epicentro e producendo un’intensità estrema pari a X della MMI, scala Mercalli modificata (Figura 3). La stazione sismica dell’USGS a Nay Pyi Taw (a circa 250 km dall’epicentro) ha fatto registrare un picco di accelerazione al suolo di 0,623 g. La potenza del sisma è stata tale da farsi sentire a centinaia di chilometri di distanza: in Vietnam, ad Hanoi e Ho Chi Minh City, e perfino nella provincia cinese dello Yunnan. Le riprese satellitari hanno confermato l’ampiezza degli spostamenti, e i numeri ufficiali del Centro di coordinamento per l'assistenza umanitaria dell'ASEAN per la gestione dei disastri (AHA Centre) indicano, a un mese dal sisma, 3 800 morti, 5 100 feriti, 116 dispersi e oltre 120 000 edifici danneggiati – di cui 48 834 completamente crollati.
Dopo aver osservato la potenza distruttiva dei terremoti in Turchia-Siria, in Giappone e nel Myanmar ci si interroga inevitabilmente se terremoti di così grande intensità possano verificarsi anche in Italia e quali potrebbero esserne le conseguenze.
In Italia, sulla base delle conoscenze attuali, la probabilità di assistere a un evento catastrofico con magnitudo superiore a 7.5 (Figura 4a) è considerata molto bassa: semplicemente non sembrerebbero esistere faglie continue abbastanza lunghe da accumulare l’energia necessaria per una rottura di centinaia di chilometri. Nel territorio italiano sono infatti generalmente presenti reti di faglie corte e frammentate, tipicamente con una estensione tra i 20 e i 60 km (Figura 4b), un dettaglio che limita naturalmente la magnitudo massima dei nostri terremoti attorno a Mw 6.5–7.0. Eppure la storia ci ricorda che terremoti molto forti con magnitudo superiore a 7.0 si sono verificati nel passato. Si ricordino ad esempio i terremoti della Val di Noto nel 1693 (stimato di Mw 7.3), del 1783 in Calabria (stimato di Mw 7.0–7.1), il sisma di Messina del 1908 (Mw 7.1), del Fucino nel 1915 (Mw 7.0) e dell’Irpinia nel 1980 (Mw 6.9) hanno devastato intere regioni e determinato, come nel caso del terremoto della val di Noto, la scomparsa di interi paesi. Per avere un’idea della potenza di alcuni di questi eventi, basti ricordare che gli eventi della Calabria, del Fucino e dell’Irpinia hanno registrato spostamenti superficiali di 1–3 m.
In periodi storici ancora più recenti, terremoti da moderati a forti, con magnitudo inferiori a 7.0, hanno comunque provocato gravi conseguenze. Si ricordi ad esempio come il terremoto del 6 aprile 2009 a L’Aquila (Mw 6.3) causò 309 vittime e migliaia di sfollati; la sequenza emiliana del maggio 2012 (Mw 5.9–5.8) provocò 27 morti; quello del 24 agosto 2016 a Amatrice (Mw 6.0) causò circa 300 morti e oltre 4.000 senzatetto; quelli del 26 e 30 ottobre 2016 di Norcia–Visso (Mw 6.1–6.5) causarono 30 vittime; quello del 21 agosto 2017 di Ischia (Mw 4.0) causò due vittime. Le perdite umane furono sempre accompagnate da significative perdite del patrimonio storico artistico di cui l’Italia è emblema.
È però doveroso annotare come questi terremoti abbiano dato, quanto meno, la spinta al rinnovo delle normative tecniche che ebbe il suo inizio con l’emanazione dell’OPCM 3274 del 2003 nato a seguito della tragedia del crollo della scuola elementare a San Giuliano di Puglia durante il terremoto del 31 ottobre 2002 (Mw 5.7). Contestualmente, anche le reti di monitoraggio sismico sono state progressivamente potenziate, favorendo una maggiore consapevolezza sull’importanza della prevenzione.
Negli ultimi vent’anni l’Italia ha potenziato in modo significativo le proprie infrastrutture di osservazione per captare ogni movimento della crosta terrestre. La Rete Sismica Nazionale (RSN) dell’INGV, nata con la fondazione dell’Istituto e cresciuta a partire dagli anni 2000, conta oggi circa 500 stazioni velocimetriche e accelerometriche, affiancate da numerose postazioni per il monitoraggio delle deformazioni del suolo (stazioni GPS) permanenti distribuite sull’intero territorio nazionale (Figura 3a). Questi sensori, collegati in tempo reale alle sale sismiche di Roma, Napoli (Osservatorio Vesuviano) e Catania (Osservatorio Etneo), forniscono: i) l’immediata localizzazione degli eventi e la stima precisa della magnitudo; ii) la misurazione dei parametri di scuotimento (PGA, PGV e spettri di accelerazione); iii) la produzione di ShakeMaps e scenari di danno in tempo reale; iv) la valutazione dei tassi di deformazione della crosta e lo studio delle strutture profonde.
In parallelo, il Dipartimento della Protezione Civile gestisce la Rete Accelerometrica Nazionale (RAN), composta da oltre 650 stazioni principalmente in configurazione “free‐field” e installate anche su edifici strategici – scuole, ospedali, ponti. Ogni nodo RAN misura accelerazioni fino a frequenze elevate e inoltra all’istante i dati alle sale operative e ai sistemi di allerta rapida. I suoi accelerogrammi possono essere adottati per effettuare simulazioni numeriche di strutture nuove o esistenti al fine di valutarne il comportamento dinamico, generare, anche automaticamente, le mappe di scuotimento d’emergenza, tarare l’accuratezza di sistemi di monitoraggio dinamico delle strutture indipendenti e calibrare modelli di pericolosità sismica. Inoltre, sempre il Dipartimento della Protezione Civile, tramite la rete nazionale dell’Osservatorio Sismico delle Strutture (OSS), monitora le oscillazioni indotte da terremoti in 173 strutture pubbliche: 160 edifici (di cui 70 scuole pari al 44%, 46 fra municipi e prefetture pari al 29%, 29 ospedali pari al 18%, 15 altre tipologie pari all’9%) oltre a 7 ponti e 6 dighe. Queste costruzioni si trovano in comuni classificati per lo più in zona sismica 1 (35%) e 2 (54%).
Completano il quadro numerose reti regionali – come quelle di Genova, del Nord‐Est, delle Marche, ecc. gestite da università e centri di ricerca – che infittiscono la copertura con sensori locali ad alta densità, cruciali per studi di microzonazione e per analisi post‐evento.
Negli ultimi anni alcune città italiane si stanno iniziando a trasformare in veri “laboratori” per il rischio sismico grazie alle Urban Seismic Networks (USN), micro-reti di sensori sismo-accelerometrici che integrano la capillare infrastruttura nazionale e regionale. Le USN perseguono due obiettivi fondamentali: da un lato, migliorare la conoscenza della risposta sismica in area urbana, contribuendo alla microzonazione del territorio al fine di identificare come il terreno locale (riempimenti alluvionali, depositi vulcanici o litologie più resistenti) modifica l’intensità delle onde sismiche; dall’altro fornire dati in tempo reale per sistemi di allerta rapida e per la sorveglianza di edifici e infrastrutture critiche.
A Catania, una delle aree metropolitane a più elevato rischio sismico d’Italia, la realizzazione dell’Osservatorio Sismico Urbano (OSU) nel 2020 ha portato a installare una delle prime reti con una ventina di stazioni sismo-accelerometriche nel centro storico della città (Figura 5a;), oggi parte dall’infrastruttura dell’INGV “Monitoraggio Sismico Urbano e delle infrastrutture - CMSU”. Nei Campi Flegrei (Figura 5b), da maggio 2024, si è proceduto a installare 16 stazioni accelerometriche (INGV-OCF) allo scopo di potenziare la rete accelerometrica dell’Osservatorio Vesuviano (INGV-OV), che includono quattro sistemi di monitoraggio strutturale a Bagnoli in edifici di diversa altezza. Insieme alle postazioni della RAN, l’area flegrea è oggi la più densamente monitorata d’Italia con quasi 50 sensori accelerometrici dedicati allo studio dell’aumento, dal 2023, di frequenza e magnitudo dei terremoti legati al bradisismo e alla caratterizzazione dei parametri di sorgente e di strong motion. A Messina–Reggio Calabria, grazie ai fondi del PNRR, è prevista entro il 2025 la realizzazione della prima Rete Sismica Urbana dotata di 48 stazioni accelerometriche. Analogamente a Potenza e Ragusa è in programma la realizzazione di Reti Sismiche Urbane e di sistemi di monitoraggio strutturale.
L’espansione delle USN risponde a quattro esigenze fondamentali:
. Oltre alle reti urbane, l’integrazione con sistemi “semplificati” di monitoraggio strutturale negli edifici – sensori standardizzati per misure dinamiche e statiche – permette di registrare in modo continuativo il moto del suolo e di valutare la risposta dinamica e l’integrità delle strutture prima, durante e dopo ogni evento sismico, riducendo le incertezze nelle microzonazioni.
Grazie ai più moderni sistemi di Structural Health Monitoring (SHM) è oggi possibile valutare la “salute” delle strutture e pianificare politiche di resilienza, e ottenere, in fase pre- e post-sisma, dati quasi in tempo reale sul livello di deterioramento e/o danno di edifici, ponti e viadotti in caso di terremoto, accelerando le decisioni operative e i tempi di ripresa.
Combinando sistemi USN e SHM è possibile:
Quindi, integrando tecnologia avanzata, dati in tempo reale e governance partecipata, la prevenzione sismica può uscire dal solo ambito emergenziale per diventare una pratica quotidiana, tarata sulle specificità di ogni città e capace di ridurre vittime e danni.
Prevenire e mitigare il rischio sismico in Italia rappresenta una sfida complessa e sempre più urgente, soprattutto alla luce dell’età avanzata di gran parte del patrimonio edilizio e infrastrutturale, il cui deterioramento progressivo, in assenza di interventi manutentivi adeguati, ne accresce la vulnerabilità complessiva.
Il territorio italiano è caratterizzato da un’elevata pericolosità sismica, associata a una vulnerabilità strutturale diffusa e a un’esposizione significativa. Tali fattori derivano dalla fragilità del costruito – spesso risalente a periodi antecedenti all’introduzione delle normative antisismiche – e dalla presenza di un patrimonio storico, artistico e monumentale di eccezionale valore, concentrato in contesti ad alta densità abitativa. Circa l’80% del patrimonio edilizio nazionale è stato realizzato prima dell’entrata in vigore delle prime norme tecniche per le costruzioni in zona sismica e, pertanto, non è progettato per resistere a forti scuotimenti. Un’azione di messa in sicurezza estesa sull’intero patrimonio risulterebbe economicamente e logisticamente insostenibile nel breve periodo. Tuttavia, l’attuale stato delle conoscenze scientifiche consente di individuare, con buona attendibilità, le aree del Paese maggiormente soggette a eventi sismici significativi nei prossimi anni/decenni. In tale contesto, risulterebbe più efficace adottare un approccio selettivo e prioritario, concentrando le risorse sugli ambiti territoriali a maggiore rischio e sugli edifici più esposti.
In questa logica, dovrebbe essere data priorità agli edifici strategici (come ospedali, municipi, prefetture, infrastrutture di rete e di emergenza) e a quelli rilevanti (scuole, edifici storici, luoghi pubblici ad alta frequentazione), con l’obiettivo di ridurre in modo significativo le conseguenze di un eventuale sisma in termini di vittime e danni. Per sostenere tali interventi, risulta fondamentale la disponibilità di strumenti normativi e finanziari efficaci, ma serve anche una maggiore consapevolezza da parte della popolazione italiana sul valore della prevenzione sismica.
Tra questi, il Superbonus e in particolare il Sismabonus era stato concepito come un incentivo volto a promuovere l’adeguamento sismico degli edifici mediante consistenti detrazioni fiscali. Tuttavia, i risultati conseguiti si sono rivelati ampiamente inferiori alle aspettative. Ostacoli di natura burocratica, difficoltà nell’accesso al credito, incertezza normativa e complessità delle procedure hanno limitato fortemente l’adesione da parte dei cittadini. I dati dell’Agenzia delle Entrate confermano questa tendenza: tra il 2020 e il 2023, meno del 10% degli interventi finanziati tramite bonus edilizi ha riguardato il Sismabonus, a fronte di oltre l’80% indirizzato verso Ecobonus e Superbonus 110%, focalizzati su efficientamento energetico e isolamento termico.
Questo squilibrio evidenzia una criticità strutturale, non solo nella programmazione degli incentivi, ma anche nella percezione pubblica del rischio. La sicurezza sismica, pur costituendo una condizione fondamentale, continua a essere subordinata a logiche legate a benefici economici immediati.
Anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), pur avendo destinato risorse significative alla riqualificazione del patrimonio pubblico, presenta non poche criticità. Al 2025, circa 4 miliardi di euro risultano stanziati per l’edilizia scolastica, ma solo una quota limitata è stata effettivamente investita in interventi specifici di adeguamento sismico. Inoltre, numerosi interventi risultano ancora in fase di gara o autorizzazione, con un conseguente ritardo nell’attuazione concreta delle opere. Secondo i dati più recenti dell’Anagrafe dell’Edilizia Scolastica aggiornati al 2022, solo l’11,4% degli edifici scolastici è stato progettato secondo criteri antisismici e poco più del 3% ha beneficiato di lavori di adeguamento o miglioramento. Un quadro di elevata criticità si riscontra anche nel settore sanitario, dove gli interventi strutturali risultano spesso subordinati a esigenze di efficientamento energetico o ammodernamento tecnologico.
L’esperienza del Sismabonus e le difficoltà che stanno emergendo nell’attuazione del PNRR mettono in evidenza la necessità di rivedere in modo sostanziale l’approccio alla prevenzione sismica in Italia.
La prevenzione e la mitigazione del rischio sismico non possono essere affidate a strumenti temporanei o a interventi disorganici. Affinché le politiche di riduzione del rischio possano risultare efficaci, è indispensabile adottare una visione strategica di lungo termine, basata su priorità territoriali, strumenti semplici e accessibili e una pianificazione coordinata tra livelli istituzionali. È necessario che diventino un elemento strutturale e permanente delle politiche pubbliche, in grado di garantire livelli adeguati di sicurezza alla popolazione. Solo in questo modo sarà possibile trasformare la prevenzione da enunciato programmatico a politica pubblica concreta, duratura e realmente efficace.
I concetti di prevenzione e mitigazione del rischio devono tradursi in reali azioni operative. Inoltre, la prevenzione richiede una conoscenza approfondita del territorio, delle sue vulnerabilità e delle modalità di propagazione delle onde sismiche. La mitigazione consiste nell’attuare misure capaci di ridurre gli effetti di un evento sismico, attraverso il miglioramento del comportamento strutturale degli edifici, la selezione mirata degli interventi e il rafforzamento della capacità di risposta delle comunità locali. Un’efficace politica di prevenzione sismica deve comunque fondarsi su evidenze scientifiche solide: microzonazioni sismiche, reti di monitoraggio accelerometrico, dati geodetici e modelli di pericolosità aggiornati rappresentano strumenti imprescindibili per comprendere e gestire il rischio. In questo ambito, un ruolo sempre più centrale può essere svolto dall’integrazione delle Urban Seismic Networks (USN) e dei sistemi di Structural Health Monitoring (SHM). Sebbene si tratti di pratiche ancora poco diffuse, in contesti come Catania e i Campi Flegrei – dove la loro applicazione è in una fase di sviluppo – tali strumenti stanno già consentendo di acquisire in tempo reale dati fondamentali sulla risposta sismica locale e sul comportamento dinamico delle strutture monitorate. Tali informazioni, oltre a supportare la gestione dell’emergenza, risultano essenziali per la calibrazione delle mappe di rischio, l’aggiornamento della pianificazione urbanistica e la valutazione del danno atteso.
In conclusione, pur non essendo possibile mettere in sicurezza l’intero patrimonio edilizio nazionale in tempi brevi, risulta comunque praticabile una pianificazione selettiva e prioritaria basata su criteri scientifici, trasparenti e condivisi. In quest’ottica, la prevenzione non deve essere intesa come reazione al rischio già manifestato, ma come un insieme di misure volte ad anticiparlo, gestirlo e ridurne le conseguenze. Una simile prospettiva consente di superare l’approccio emergenziale, trasformando la protezione civile in una funzione ordinaria e continuativa, integrata nelle politiche territoriali e nella cultura della sicurezza.
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